INTERVISTA A MARIO BERETTA- “Cosa significa stare vicino ai giovani atleti oggi”

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Mario Beretta - Ex Allenatore professionista e attuale membro FIGC

Il lavoro di Mario Beretta nel calcio, è frutto della grande passione per questo sport che l’ha portato a studiare Scienze Motorie e a sviluppare al meglio questa sua strada. La sua esperienza parte da allenatore, prosegue come responsabile, per arrivare oggi alla dirigenza, accompagnata dalla formazione dei giovani allenatori.

 

Nella veste di allenatore ha incontrato un gran numero di giovani atleti, ognuno con la propria personalità, il suo linguaggio e le sue paure; fin dall’inizio la sfida è stata quella di trovare la chiave per comunicare con loro, per comprenderne le sfaccettature e capire quale fosse la strategia giusta per ogni atleta. 

Ho sempre cercato di capire da solo, anche sbagliando – dice Beretta – e soprattutto all’inizio credevo che il tipo di comunicazione fosse lo stesso per tutti. Poi mi sono reso conto di sbagliarmi, perché ognuno ha il proprio carattere e la propria testa; man mano ho iniziato a rapportarmi in modo diverso a seconda di chi avevo di fronte. Dal punto di vista tecnico il linguaggio è ovviamente più universale, però anche lì gratificare o correggere varia in relazione all’atleta, alle sue esigenze e all’età. Un diciottenne potrà anche giocare nella stessa squadra con chi che di anni ne ha trentacinque, ma i due vivono fasi e momenti completamente differenti”. 

Differenze che si fanno sentire anche in campo affettivo, per esempio a proposito di famiglia, che può essere quella originaria o quella di nuova costituzione, magari con prole. 

Quali sono allora le difficoltà che si incontrano nel gestire la comunicazione considerando anche questi elementi

Si cerca sempre di scindere le due cose. L’atleta, o il ragazzo, esegue il proprio lavoro, si allena, lo fa bene e con entusiasmo e quella è la parte a cui mi devo dedicare. Certo ho sempre detto loro che qualsiasi problema non inerente al campo può essere discusso nel mio spogliatoio: è capitato, in un paio di situazioni anche ad altissimo livello, in cui ci siamo confrontati e ho cercato di aiutarli. 
In realtà, per tutto ciò che riguarda il fuori dal campo, a meno che siano loro a parlarne, tendo a rimanerne fuori il più possibile,
per non correre il rischio di entrare in dinamiche che possono incidere sul rendimento. Fraintendimenti, parole nei confronti di un famigliare dette male, possono influenzare negativamente l’atleta”.

Lavorando con una squadra, tutto il lavoro che si fa per l’atleta viene moltiplicato per ciascun componente della squadra stessa, così ogni volta che entra qualcuno l’inserimento deve prevedere l’adattamento degli altri, e in primis dell’allenatore, ai nuovi arrivati.

Ma come si fa a (ri)creare il clima di gruppo a ogni nuovo innesto?

Fortuna vuole che bene o male nel football i calciatori si conoscano tutti, anche se non in modo approfondito, per le partite giocate magari da avversari. C’è un’ inclusività abbastanza veloce e senza particolari problemi, come allenatore non ho mai dovuto cercare soluzioni per attriti o particolari resistenze. Ho sempre cercato il dialogo, con la squadra e con i ragazzi, di essere sempre disponibile a fare il meglio per farli sentire a proprio agio. È chiaro che, per una questione di affinità caratteriali, non sempre tutti e trenta possono starsi simpatici. L’importante è che quando vanno in campo siano una squadra e si aiutino, questo in fondo conta”. 

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“A volte certe tensioni aiutano, l’importante è che il singolo vada in campo per raggiungere i risultati tanto come squadra, quanto come individuo”

Cosa succede quando sale la tensione e, ad esempio nei post-partita, non tutti sono d’accordo; cosa cerca di fare l’allenatore in tali circostanze, quali strategie elabora? 

Succede spesso, durante la settimana, soprattutto quando la squadra non va tanto bene, e io ho sempre detto che se vanno d’accordo è meglio, ma è pur vero che non è detto che se tutti vanno d’accordo sempre anche fuori dal campo, poi vincano le partite. A volte certe tensioni aiutano, l’importante è che il singolo vada in campo per raggiungere i risultati tanto come squadra quanto come individuo. È importante che tutti lo facciano seguendo una linea comune e lavorino per raggiungere un obiettivo altrettanto condiviso. 

Capita che vi siano degli screzi con un atleta, percezioni di tensione che rischiano che questi le porti in squadra; è un rischio, ma sta alla maturità – dell’allenatore e dell’atleta – ragionare sulla dimensione individuale e lasciare ciò che può emergere fuori dal contesto squadra, fuori dal campo”. 

Tornando al nostro giovane atleta che entra nel mondo sportivo, come ci arriva e cosa lo spinge a continuare

C’è chi inizia a giocare a calcio perché da piccolino si gioca a pallone, poi andando avanti può subentrare l’interesse dei genitori, ovviamente la famiglia influenza sempre in un senso o nell’altro, a volte i figli emulano i genitori per esempio nel praticare uno sport piuttosto che un altro. Il discorso si complica quando i ragazzi abbandonano presto, quando la motivazione si perde, probabilmente perché il loro obiettivo era raggiungere alti risultati che non arrivano portandoli a decidere di smettere pensando di non farcela. A volte ci sono aspettative troppo elevate da parte dei ragazzi, talvolta invece da parte dei genitori. Se si tratta di una grande passione, si può continuare a giocare con gli amici o da dilettante, una volta c’erano meno interessi, giocavi perché ti piaceva, ora invece c’è tutto un altro modo di affrontare la vita di ogni giorno. Tanti input che arrivano da ogni parte, va a finire che uno si chiede perché dovrebbe perdere tempo ad allenarsi invece di uscire con gli amici, andare a ballare, etc.

Ma c’è un altro punto in merito al quale siamo noi allenatori e dirigenti a doverci fare un esame di coscienza, se non riusciamo ad appassionarli e tenere vivo l’entusiasmo, perché magari vengono al campo e non si divertono”. 

Ipotizziamo che il nostro giovane atleta sia entrato nel mondo dello sport e abbia deciso di continuare, inizia a distinguersi nelle prime partite, è talentuoso.

Qui il carico di allenamento cambia, così come i sacrifici che gli vengono richiesti e le rinunce che deve fare…

“È quel che bisogna fare per realizzare il sogno, io parto dal concetto che se si fa ciò che piace non sia un sacrificio, per quanto vi sia comunque qualcosa cui rinunciare: per arrivare al massimo bisogna dedicare del tempo e rinunciare a qualcosa. Il discorso è molto semplice”. 

Cosa succede quando c’è un talento o quando accade il contrario, l’atleta è bravo ma è chiaro che quella non è la sua strada?

Il riconoscimento delle qualità si vede in modo marcato. Puoi vedere un ragazzino che è decisamente più avanti degli altri dal punto di vista tecnico, eppure non è detto che possa arrivare in alto perché poi gli ulteriori passi da fare sono tanti. Non è un’attitudine che si studia e si impara, è esperienza: ti viene l’occhio, a volte ti sbagli… L’errore è all’ordine del giorno, individuare un ragazzo e pensare che arriverà in alto, magari ha più possibilità di altri, forse invece no per via di mille complicazioni. 

Per quanto riguarda il secondo caso il problema è farlo capire. Esperienze personali fatte da responsabile del settore giovanile, dove mi prendevo la responsabilità evitando agli allenatori la fatica di convocare a fine anno i genitori per dire loro che il ragazzo non sarebbe stato confermato in squadra professionistica. Chiedevo infatti la presenza dello psicologo del club per poi parlarne con i genitori o il ragazzo stesso subito dopo il colloquio. 

Stiamo parlando di momenti di negatività generati da una notizia non bella, calcisticamente parlando, in cui dobbiamo fargli comprendere che è sì una sconfitta, ma non lo è per sempre.

Più si sale più le aspettative crescono, anche da parte del club, si parte in tanti e si arriva in pochi, e occorre rendere l’idea che più si va avanti più le richieste aumentano e più difficile è soddisfarle. C’è chi la prende bene e chi malissimo, tendenzialmente ho sempre cercato, da responsabile e da allenatore, di avere comunque un occhio di riguardo per la scuola, chiedevo le pagelle, per quanto non possa certo sostituirmi ai genitori, anche se questi ultimi in fondo lo vorrebbero. Noi passiamo due/tre ore al giorno per quattro giorni coi loro figli, ma il resto del tempo lo passano in casa e molte famiglie, a scarico di responsabilità, vorrebbero che ci scambiassimo i ruoli. 

Bisogna lavorare insieme, ed è importante l’apporto della famiglia, se questa ingigantisce la “sconfitta” o vede l’evento solo come tale è la fine, magari hanno investito nel figlio ciò che avrebbero voluto fare e non ci sono riusciti nella propria vita, riversando tutto sul figlio; se invece c’è una famiglia che sa che si gioca per divertirsi e più si impara più ci si diverte, da questa base si riesce a lavorare insieme.” 

Non solo l’atleta vive queste difficoltà, anche l’allenatore è chiamato ad affrontare le proprie sconfitte

Io mi sono sempre fatto carico, fin troppo!, delle sconfitte, poi dipende dal carattere, per quanto fosse complicato accettarle. Spesso ti metti in discussione, talvolta sembra quasi di tradire le persone, i tifosi… Però è chiaro che non devi portare questi sentimenti all’interno della squadra. L’allenatore deve essere anche attore: nei momenti in cui vinci cinque partite di fila non devi cantar vittoria e quando perdi non ti devi abbattere, ma mantenere sempre quel certo equilibrio che pensi di avere, così che le persone te lo possano leggere in faccia. 

L’allenatore che riesce ad arrivare ad alto livello è colui che riesce ad assorbire meglio le sconfitte: vincere è facile, il problema è quando perdi. Dubitare di tutto quel che stai facendo e metterti eccessivamente in discussione rischia di dare un’impressione di incertezza, però devi anche sapere quando stai sbagliando… sono momenti difficili, a volte azzardi per vedere la reazione del club e dei giocatori. È un terno al lotto.” 

Cosa manca ancora, cosa può fare lo psicologo, quali nodi non si riescono a districare? 

Ci sono problematiche sia dal punto di vista sportivo che sociale e familiare a influire sulla formazione dei ragazzi in età evolutiva e per i più grandi nel loro percorso professionistico. In un’ottica professionale, noto ultimamente sempre maggiori aspettative che, forse per la nostra società molto competitiva, generano ansia da prestazione, e non poca. Ci sono momenti in cui il ragazzo fatica a divertirsi e dare tutto quello che ha. 

Per quanto riguarda gli aspetti sociali: è importante stare bene con gli altri compagni e accettare le diversità, cioè che ognuno sia fatto in un modo diverso; per quanto riguarda la famiglia dobbiamo considerare che molti genitori sono separati. Tutti aspetti che influiscono nella formazione di un ragazzo, o comunque su un giovane già della prima squadra, e io faccio l’allenatore ma non lo psicologo, ci sono situazioni in cui un esperto o professionista saprebbe risolvere e aiutare sicuramente più di un allenatore. Lo psicologo serve agli atleti ma molto spesso più allo staff per potersi approcciare nel modo più efficace possibile agli atleti stessi”. 

Stiamo affrontando un momento complicato per tutto il mondo sportivo e piano piano si ritorna alla normalità; come ha impattato la pandemia nel vissuto degli atleti? 

Si perde entusiasmo, crescono altri interessi. Non ti puoi allenare e ti faccio vedere i video, i giocatori e la partita, ma non può durare un anno. Bisogna andare in campo, correre e allenarsi. Mi auguro che quando si tornerà a giocare ed allenarsi, come prima, quantomeno questi mesi siano serviti a trasmettere un senso di resilienza, a essere più forti mentalmente, anche se non allenarsi, non andare a scuola è sicuramente pesante. È un modo diverso di pensare e confrontarsi, che sta durando da mesi, ma cerchiamo di vederne il lato positivo: quando qualcuno si lamenterà, magari pensando a quel che è successo non si lamenterà più…”.

Ringraziamo Mario Beretta per il prezioso contributo di un uomo che ha visto moltissimi giovani entrare nel mondo del calcio, crescervi o abbandonarlo, con la speranza che testimonianze come la sua aiutino sempre più gli psicologi a lavorare nel contesto sportivo.

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